Blog Mefop

Il Welfare Aziendale dopo l’epidemia: meno flex, più people care

Luca Pesenti / Giovanni Scansani
05 ottobre 2020
TEMI MEFOP
  • Welfare contrattuale e aziendale
DESTINATARI
  • Fondi sanitari
  • Altri Enti bilaterali
  • Cittadini

Estratto dall’e-book intitolato “Welfare Aziendale: e adesso?”, 2020, Vita e Pensiero, Milano

 

Il dopo-Covid19 sarà il nostro dopoguerra”. Il passaparola ripete ancora questa frase, letta sui giornali, sentita dai commentatori, trasferitasi nei commenti di quasi tutti senza pensarci su troppo. Ci sembra una metafora eccessiva: la guerra, con il suo cumulo di macerie umane, sociali ed economiche, non ha nulla di paragonabile rispetto alla pur difficile e certamente drammatica condizione che ci ha investito.

E tuttavia l’incertezza e l’ansia per quanto accaduto e potrà accadere al nostro sistema economico non lasciano tranquilli. Occuparsi di Welfare Aziendale (WA), in un quadro simile, potrebbe sembrare allora un puro esercizio di stile. Nell’emergenza è ancora una volta il welfare dello Stato, delle Regioni e dei Comuni che ha messo in campo le grandi misure strutturali indispensabili a dare stabilità ai sistemi sociali. Più in generale, poi, la vera e prioritaria misura di welfare cui guardare sarà quella di riuscire a tornare a lavorare in salute e con tutte le garanzie necessarie per preservare la propria integrità fisica e psicologica. Passando dall’emergenza primaria di riuscire a creare le condizioni perché quel lavoro – quando l’emergenza epidemiologica sarà (più o meno) finita – sia ancora lì ad aspettarci.

Il tema del lavoro sarà quindi un grande banco di prova, perché questa volta non si tratterà semplicemente di salvarlo, ma di rilanciarlo come valore individuale e collettivo: è questa una delle “lezioni” che, tra le tante, il coronavirus ci ha impartito. Vista da questa angolatura, allora, la questione chiama fin d’ora pienamente in causa anche il tema del WA, elemento che del lavoro è ormai una componente di non secondaria importanza: spesso figlia di culture organizzative solide e radicate nel tempo, più recentemente frutto di nuove culture dell’HR management e improntate alla logica del “valore condiviso”, introdotte anche dai principali contratti collettivi nazionali oltre che da migliaia di contratti integrativi sottoscritti in altrettante imprese. Una componente sul cui sviluppo lo stesso Legislatore ha molto puntato negli ultimi anni e che gli effetti della pandemia potrebbero (e forse dovrebbero) indurre a rafforzare ulteriormente in futuro.

Ha quindi senso provare ad addentrarsi nell’immaginare quali saranno i futuri contenuti del “nuovo” Welfare Aziendale (WA). Per compiere questo impervio lavoro di prospettiva, occorre a nostro avviso, innanzitutto, provare a leggere entro quale profonda trasformazione valoriale e culturale saremo sempre più immersi.

Poco più di quarant’anni fa (era il 1977) lo scienziato sociale statunitense Ronald Inglehart nel suo libro “The Silent Revolution”, teorizzò l’emerge di un’inevitabile trasformazione dei valori occidentali nella direzione del cosiddetto “post-materialismo”: la tesi di fondo è che, data ormai per acquisita la sicurezza materiale (economica e di salute), le generazioni divenute adulte dagli anni Settanta in poi avrebbero attribuito maggiore importanza a obiettivi come la capacità di autoespressione, l’autonomia, la libertà di scelta, l’ambientalismo, i diritti di libertà, e così via. Inglehart sosteneva che al crescere della prosperità, tali valori post-materialisti sarebbero gradualmente divenuti egemonici all’interno delle società post-industriali, in particolare grazie ai processi culturali legati alla sostituzione intergenerazionale.

Fino a un certo punto della Storia le cose sono effettivamente andate in quella direzione. Dagli anni Settanta – dati per scontati alcuni elementi basici (benessere economico, salute, pensione, sicurezza) – l’Occidente ha effettivamente “virato” il proprio impianto culturale verso nuovi valori legati ai “nuovi diritti” (l’ambiente, la “qualità della vita”, il wellness, ecc.). Un processo strettamente collegato alla nascita e allo sviluppo della società consumista di massa e all’idea che il benessere potesse crescere in modo continuo permettendo a ciascun individuo di trovare la propria strada sviluppando una propria definizione di benessere.

Poi, però, qualcosa ha cominciato a cambiare in questo meccanismo evolutivo apparentemente inesorabile. Il sociologo Ulrich Beck già nel 1986 avviava le proprie riflessioni sulla “società del rischio. Ma occorse giungere al nuovo millennio per visualizzare in modo compiuto la trasformazione che si stava sotterraneamente preparando. Dapprima, si è insinuata una cultura diffusa segnata da crescenti sentimenti di minaccia e da una costante condizione di emergenza, il cui contraltare è l’ideologia della sicurezza, sia essa pubblica o privata ed il cui epicentro simbolico è stata la tragedia dell’11 settembre 2001 e la successiva scia di attentati terroristici e di guerre. Dopo solo pochi anni, con il crack finanziario del 2007/2008, anche le basi di sicurezza economica con cui l’Occidente si era fin lì attrezzato hanno cominciato a scricchiolare, portando con sé una nuova questione sociale e una crescente domanda di protezione sociale e di rafforzamento degli istituti di welfare.

Per certi versi, una parte della società occidentale, da ormai quasi due decenni, sembra essere tornata dunque a quei valori “materialisti” che si ritenevano superati dalla Storia, tanto da spingere lo stesso Inglehart (insieme alla collega P. Norris) a identificare l’emersione di un “cultural backlash, una reazione valoriale anti-postmaterialista diffusa in modo trasversale tra le generazioni precedenti a quella attuale, incarnatasi poi politicamente nei movimenti populisti e sovranisti.

Se vogliamo proseguire all’interno di questo frame interpretativo, è ora agevole osservare come l’Occidente stia scoprendo a causa della pandemia che, oltre alla sicurezza e alla protezione sociale, si sta indebolendo anche un terzo, grande pilastro della modernità: quello del diritto alla salute. E che al contempo, sotto la concomitante scure delle crisi che si stanno inseguendo a velocità sempre più sostenuta, anche il benessere economico non può più essere dato per scontato.

Stiamo dunque tornando (almeno per una parte crescente della popolazione) alla casella di partenza, dopo esserci illusi di aver costruito il migliore dei mondi possibili ed aver addirittura vaneggiato un futuro liberato dal problema del lavoro. Appare evidente che anche le strategie di WA non potranno non tenere in considerazione queste profonde dinamiche sociali e culturali.

Il lavoro da mettere in sicurezza

Se dunque accettiamo di partire da questa trasformazione intervenuta nelle società occidentali, riteniamo sia possibile ipotizzare (e forse anche vivamente sperare) che il WA del futuro debba tornare ai fondamentali: sicurezza, salute, reddito, assistenza.

Proviamo a declinare questa nostra ipotesi sul piano pratico.

Anzitutto, il nuovo WA dovrà certamente passare per una più strutturata attività di prevenzione e gestione della sicurezza organizzata su una più vasta scala d’interventi, dovendosi ora includere nel set dei rischi (attuali e futuri) anche quello di tipo pandemico (con quel che conseguirà sul piano assicurativo e in tema di procedure, controlli e ridefinizione dei limiti della privacy da coordinare meglio con le più ampie aspettative di sicurezza collettiva). Hanno iniziato a farlo le imprese più grandi e strutturate, seguite (con non poche difficoltà) da tutte le altre. Sarebbe sicuramente utile se tali attività potessero coordinarsi con il Sistema sanitario nazionale (SSN) in un utile scambio di informazioni che tra loro aggregate sarebbero capaci di aggiornare il monitoraggio territoriale mettendo così a sistema, almeno su questo fronte, il tessuto produttivo e quello sociale complessivo. È possibile, altresì, immaginare che possano essere definiti “protocolli territoriali” che tenendo conto delle condizioni socio-demografiche della popolazione e di quelle attinenti le patologie più diffuse, anche rispetto alla tipologia delle lavorazioni locali, impongano alle aziende l’adozione di veri e propri “piani sanitari” da certificare e sottoporre a periodici controlli, ampliando le responsabilità del medico competente e sburocratizzandone le funzioni.

Ben più che una traccia per avviarsi verso questa impostazione è rappresentata dal “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure di contrasto e contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” sottoscritto il 14 marzo 2020 (e poi aggiornato il successivo 24 aprile) dalle Organizzazioni sindacali dei lavoratori e dalle Rappresentanze datoriali (cui hanno fatto seguito i Protocolli aziendali assunti dalle singole imprese).

Il “nuovo” WA, dunque, passerà per una ridefinizione del concetto stesso di sicurezza sul lavoro, ampliando le funzioni del Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione (RSPP) e del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS). La nuova idea di sicurezza sul lavoro sarà certamente più ampia ed efficace, ma soprattutto passerà anche per una rinnovata attenzione all’operatività degli interventi a tutela della salute, grazie ad un più diffuso sviluppo dell’assistenza sanitaria integrativa, all’investimento in polizze collettive ad hoc e nelle coperture LTC e per la progressiva adozione di tecnologie specifiche applicate al campo della prevenzione e della salute, come, ad esempio, quelle proprie del settore dell’health-tech che, anche in ambito aziendale, stanno iniziando a fare la loro comparsa.

Verso piani di welfare “neo-materialisti”

La prevenzione dei rischi sul luogo di lavoro è il primo passo, ma il WA del “dopo Covid-19” dovrà affrontare una sfida totalmente differente: quella del ritorno ancora più forte ed esplicito di un bisogno di protezione sui temi classici del welfare (salute, reddito, pensioni). Gli anni che abbiamo di fronte, anche dopo il giorno in cui saremo stati capaci di sconfiggere definitivamente questo virus, porteranno con sé una richiesta molto più basica di quella cui la logica dei flexible benefit ci ha abituati. Prima di poter pensare a spendere il proprio budget di WA in viaggi (esotici o esperienziali che siano) o in altre forme di spesa in beni e servizi dell’area del cd. lifestyle, i lavoratori richiederanno più frequentemente (e più probabilmente) altro: il “carrello della spesa”, la copertura dei costi per l’asilo nido o la babysitter, il rimborso delle spese per i libri o le scuole dei figli, convenzioni commerciali più vantaggiose, il rimborso per le spese sanitarie, l’accesso ai prestiti, il sostegno per il pagamento dei mutui…

Messo in sicurezza (e reso più salubre e igienico) il luogo di lavoro e chi vi opera, si dovrà insomma rimettere mano ai piani di WA (anche a quelli esistenti). Non è difficile provare a immaginare quali potrebbero essere le aree di maggior interesse per il prossimo futuro: la ridefinizione e l’ampliamento delle coperture garantite dall’assistenza sanitaria, eventualmente rafforzabili mediante prodotti assicurativi (caso delle LTC); il rafforzamento dell’area della conciliazione vita-lavoro sia rispetto alle necessità collegate alla presenza di figli piccoli, sia considerando i “carichi di cura” per i genitori anziani spesso non autosufficienti; il potenziamento dei benefit di sostegno al reddito; il ripensamento delle policy di ageing aziendale. Saranno queste le prime piste sulle quali immaginare che il “nuovo” WA potrà incamminarsi, per altro con un prevedibile crescente contributo anche delle forme di welfare occupazionale bilaterale collegate al primo livello di contrattazione. Il tutto, se possibile, attraverso una progressiva apertura al territorio e facendo sistema nella direzione di un vero “welfare responsabile”, per attivare maggiori e più stretti legami con l’offerta pubblica dei servizi sanitari e socio-assistenziali, nonché per coinvolgere il Terzo Settore con appositi accordi e partnership. Sempre che, naturalmente, da un lato i soggetti pubblici siano disponibili a rimettere in discussione una certa “torsione” in senso assistenzialista e neo-centralista mostrata in questi mesi di emergenza, dall’altro i soggetti del Terzo Settore sappiano cogliere appieno l’opportunità producendo percorsi di innovazione non sempre alla loro portata.

Imparare per tutta la vita

La sicurezza, però, non richiama solo l’idea dell’integrità psico-fisica e dell’essere posti al riparo da incidenti e malattie. Il panorama d’incertezza economica che caratterizzerà la fase di uscita dall’emergenza e la stessa successiva ripresa produttiva sarà inevitabilmente caratterizzato dalla perdita di posti di lavoro in conseguenza di ristrutturazioni e chiusure di aziende. Emerge qui l’importanza di un’altra imprescindibile misura di welfare che in futuro dovrà essere sempre più assicurata: il lifelong learning come strumento di tenuta dell’employability delle persone da considerare come un pilastro irrinunciabile, perché le transizioni lavorative – già in sé diffuse nell’attuale generale processo di ridefinizione dell’organizzazione del lavoro – saranno ancora più frequenti e possibili in futuro. Una strategia di people management che non includa questo tema sarebbe miope ed un piano di WA che non includa questo tipo di percorso potrebbe rilevarsi, nel tempo, gravemente deficitario.

E non è solo la formazione in vista del rafforzamento della propria capacità di generare reddito, tramite il lavoro, a dover essere considerata nello scenario prossimo venturo. Il reddito ed il proprio profilo economico, nel panorama fitto di incertezze che ci attende, dovrà poter essere rafforzato non già e non solo con misure dirette (delle quali il WA, inteso come strumento di sostegno, è una tra quelle possibili), ma si dovrà espandere includendo misure come, ad esempio, la formazione finanziaria perché è a tutti ben noto come in Italia il grado di conoscenza media della materia sia basso ed è facilmente ipotizzabile che in un panorama incerto come quello che ci attende, per i più sarà molto (o ancor più) difficile orientarsi.

E per restare ancora sul tema della formazione, assisteremo forse a una più diffusa presa di coscienza che “fare welfare” in azienda non potrà prescindere dalla formazione dei beneficiari ad un suo “uso” più consapevole e lungimirante. Sarà forse meno trendy raccontare nei convegni di aver spinto verso la previdenza complementare e l’assistenza sanitaria integrativa, ma sarà stato anche molto più utile, in chiave prospettica, rispetto all’aver messo a disposizione gl’immancabili buoni benzina e le divertenti e post-materialistiche GiftCard.

Il benessere digitale

L’emergenza Covid-19 ci ha messo di fronte anche alla più grande (ed improvvisa, oltre che nella maggior parte dei casi anche improvvisata) prova di digitalizzazione di massa provocata dal “lavoro da remoto forzato” che il lockdown ha ci imposto come misura di prevenzione rispetto al diffondersi del contagio (non già, quindi, lo smart working come ancora molti credono).  Il “nuovo” WA sarà allora anche interessato a dare risposte ad una nuova richiesta di benessere di cui si sente la crescente necessità a fronte dell’uso delle innovazioni tecnologiche che ormai connotano il lavoro e la vita stessa, tra loro spesso mixate nello (e dallo) stesso device che abbiamo a disposizione. Alludiamo al benessere digitale che non è solo questione di dotazione di strumenti, di velocità e di qualità dei collegamenti o di formazione per lavorare in remoto (una questione che investe anche un tema di equità perché forte è ancora un certo digital divide all’interno delle stesse aziende), ma è ricerca e rispetto di un maggiore equilibrio tra la propria dimensione soggettiva (sempre più sussunta dal lavoro) e il “carico” della componente dovuta alle sollecitazioni digitali complessive della vita considerata nella sua interezza.

La fase emergenziale che abbiamo vissuto segnala che oltre al “diritto alla disconnessione”, il cui riconoscimento assume ormai il carattere dell’urgenza, si stanno profilando problemi di più ampia portata, addirittura di tipo antropologico. La digitalizzazione del lavoro in associazione alla virtualizzazione del luogo di lavoro rimette in discussione l’identità stessa della persona (intesa come lavoratore/lavoratrice) nel suo rapporto con l’azienda e su questi aspetti la psicologia del lavoro ha sviluppato approcci originali capaci anche di aiutare più efficacemente le persone e le imprese a conciliare l’ambito del lavoro con quello privato, con una particolare attenzione anche rispetto alla dimensione digitale nella quale entrambe le sfere sono ormai collocate e vissute. Non si tratta solo di digital detox e quindi di contemperare meglio lavoro, vita personale e uso dei device (sempre a rischio di esasperazione quando il lavoro intende farsi “smart” senza potersi basare sui corretti presupposti che ne strutturano l’organizzazione e ne assicurano l’efficienza). Il tema è più ampio e coinvolge in profondità il nesso relazionale di ciascuno con l’insieme dei propri colleghi nel quadro delle dinamiche gruppali che caratterizzano qualsiasi ambiente lavorativo, tanto più considerando che questo, fino a ieri, è stato inciso dal lockdown e che ora è in parte stravolto dalle regole di questa lunga “Fase 2”.

Meno flex, più people care

Alla luce di tutte le considerazioni che abbiamo proposto, il “nuovo” welfare d’impresa – prima ancora che guardare a defiscalizzazione e decontribuzione di benefit e premi – dopo aver considerato l’organizzazione del lavoro per renderla coerente con le nuove policy di prevenzione e sicurezza (ripensando turni, trasferte, flussi di ingresso e uscita, zone comuni: spogliatoi, mense, sale riunioni, aule di formazione) dovrà dare maggior spazio a soluzioni che limiteranno l’impostazione flexible dei benefit sin qui concessi, per mirare ad una più robusta adozione dei servizi di people care, intesi sia con riferimento ai lavoratori quali beneficiari diretti degli interventi, sia considerandone la portata extra-individuale che finisce per includere il nucleo familiare e quindi, in particolare, i figli minori e le persone non autosufficienti eventualmente presenti nel nucleo famigliare allargato. Salute, reddito, pensioni: il ritorno dei bisogni “materialisti” su cui si è costruito il modello classico del welfare europeo rappresentano non più “una” sfida, ma “la” sfida per il futuro prossimo del WA nel nostro Paese.

Ampliare i piani di WA alle sollecitazioni che abbiamo descritto ne rafforzerà gli effetti ed aiuterà ad accelerare quel processo di neo-umanesimo che il lavoro ed il suo futuro sempre più richiedono. Al crescere dell’impatto delle tecnologie e degli effetti della ridefinizione dei processi produttivi (anche in conseguenza delle crisi e non solo delle crescite), quello di cui si sente e si sentirà sempre più bisogno non sarà mai scritto in un software, né sarà mai racchiuso in qualche componente hardware di ultima generazione: parliamo dell’apporto della pienezza umana nel (e per il) lavoro e della sua piena umanizzazione per uno sviluppo realmente integrale delle persone e delle collettività.

 

Luca Pesenti

Professore associato nella Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna Attori e modelli organizzativi del welfare privato, Organizzazione e capitale umano, e Sistemi di welfare comparati. Svolge attività di consulenza, ricerca e formazione per istituzioni pubbliche, centri di ricerca, soggetti privati profit e nonprofit. È autore del libro “Il welfare in azienda” (giunto alla II edizione nel 2019) e di “Protagonisti della rappresentanza. Viaggio esplorativo tra i delegati CISL in Lombardia” (2018, con I. Pais e G. Rovati).

Giovanni Scansani

Docente a contratto in Università Cattolica, dove coordina il Laboratorio di Progettazione di Piani di Welfare Aziendale. Già CEO di società appartenenti a gruppi internazionali attivi nel settore dei servizi per il benessere individuale ed organizzativo è consulente di organizzazione del lavoro e welfare aziendale per imprese e P.A.. Giornalista pubblicista, collabora con testate specializzate in HR Management.